Valeria Manera, giovane ricercatrice (ha 32 anni) dell’Università degli Studi di Torino che oggi lavora presso il laboratorio di psicofisiologia dell’Università di Stanford, studia nei bambini con autismo proprio i deficit di previsioni delle intenzioni altrui. Lo fa con strumenti come la risonanza magnetica funzionale, tecnica di visualizzazione del cervello che permette di mappare i processi in atto a livello cerebrale. L’obiettivo dei suoi studi (finanziati dalla borsa di studio di l’OrÈal) è quello di migliorare la diagnosi e la riabiltazione dell’autismo. In questa intervista racconta che cosa fa e cosa aspettarsi dalle sue ricerche.
In base alla sua esperienza, dal momento che lei lavora con bambini autistici, come funziona la mente di una persona affetta da autismo?
L’aspetto forse più interessante ed intrigante delle persone affette da autismo è che sembrano percepire il mondo in modo diverso. Per esempio, percepiscono facilmente elementi che ad una persona non autistica tendono a sfuggire (dettagli di una un quadro, particolari di una stanza). Viceversa non sembrano cogliere aspetti della realtà ad altri immediatamente evidenti, come le intenzioni, emozioni, credenze e i desideri degli altri.
Che cosa in particolare la differenzia dal nostro modo di pensare o ragionare?
Ci sono molti aspetti. Un elemento che sembra caratterizzare le persone affette da autismo è che hanno difficoltà a leggere le intenzioni nello sguardo degli altri. Sanno che gli occhi delle persone servono per vedere, e di conseguenza sanno dire dove una persona sta guardando. Quello che però non sono in grado di fare è di leggere gli stati mentali dallo sguardo. Per esempio, questo volto è quello di Larry. A cosa è interessato Larry? Pur essendo in grado di dire dove guarda Larry, i bambini affetti da autismo non sono in grado di dire quale dei quattro oggetti Larry desideri.
Di fronte a una persona diversa da sé, come reagisce (o non reagisce) l’autistico?
Le persone affette da autismo tendono a focalizzarsi su dettagli che per gli altri non sono rilevanti, e viceversa a non prestare attenzione ad aspetti che per gli altri sono fondamentali. Quando guardano due persone che interagiscono, per esempio, invece di focalizzarsi sui loro occhi ed espressioni facciali (che danno informazioni su ciò che le persone pensano e provano), guardano dettagli poco informativi, come particolari degli abiti, o parti del viso meno socialmente salienti. Si tratta del tracciato degli occhi di una persona con autismo (in rosso) e di una persona non autistica (in giallo) mentre osservano un filmato di persone che interagiscono.
Un bambino con autismo non riesce mai a prevedere il comportamento di un’altra persona?
Questa è proprio la domanda a cui tenta di rispondere il mio progetto di ricerca. Si sa ancora pochissimo sulla capacità di prevedere il comportamento altrui nell’autismo. In particolare, non c’è nessuno studio che abbia indagato se sono in grado di prevedere le azioni a partire dai movimenti. Quando guardiamo un’azione, anticipiamo continuamente quello che succederà subito dopo. Grazie a questa abilità siamo in grado comprendere meglio gli altri, e di coordinare le nostre azioni con le loro. È possibile che alcune delle difficoltà sociali che incontrano questi pazienti dipendano proprio dalla mancanza di questa capacità di previsione.
Che cosa si può vedere con la risonanza magnetica funzionale?
La risonanza magnetica funzionale è una tecnica di neuroimmagine che permette di visualizzare in vivo l’attività del cervello mentre svolgiamo una determinata attività (ragionare, guardare una fotografia di un viso, osservare un’interazione sociale). Grazie a questa tecnica è possibile individuare quali aree del cervello sono coinvolte in queste attività. Nel caso dell’autismo o di altre patologie, viene utilizzata per indagare se a determinate disfunzioni a livello del comportamento corrispondano delle anomalie nelle attivazioni di specifiche aree del cervello.
Cosa si è scoperto, finora, osservando il cervello delle persone con autismo?
Negli ultimi 15 anni sono stati fatti moltissimi progressi. Ad esempio sappiamo che nel nostro cervello esiste un’area che si attiva quando guardiamo i volti (la fusiform face area). Si è scoperto che quando una persona con autismo guarda un viso, nel suo cervello non si attiva quest’area. Questo contribuisce a spiegare perché per le persone con autismo i visi non sono speciali. Quello che questo tipo di studi dimostra è che le anomalie nel comportamento di queste persone sono associate ad anomalie nell’attivazione del loro cervello. In studi pioneristici, la risonanza magnetica funzionale viene usata anche per valutare l’effetto della riabilitazione: perché una riabilitazione sia davvero efficace e duratura, non è sufficiente che abbia modificato il comportamento, bisogna che abbia avuto un effetto anche le attivazioni cerebrali.
Come funzionano esattamente i test previsti nel suo progetto?
Si tratta di compiti percettivi, in cui chiediamo alle persone di guardare degli stimoli point-light, ovvero degli attori rappresentati solo tramite punti luminosi che indicano le giunture principali del corpo. Mostriamo delle azioni che si interrompono ad un certo punto, e chiediamo alla persone di prevedere come l’azione andrà a finire, e l’intenzione sottostante all’azione. Oppure chiediamo semplicemente di descrivere l’azione che vedono (trattandosi di point-light, non è sempre facile capire di che azione si tratta, soprattutto se si tratta di azioni comunicative).
Su quante persone si baseranno questi studi?
Pensiamo di utilizzare, per ciascuno studio, circa 25 persone affette da autismo e 25 persone di controllo senza malattie neurologiche o psichiatriche.
Quali potrebbero essere le ricadute concrete di qs tipo di studi, e quando è lecito attendersele?
Queste ricerche potrebbero aiutare a raffinare le tecniche di diagnosi di questo tipo di disturbo nelle persone affette da autismo: se per esempio scoprissimo che i pazienti con autismo hanno un problema nella previsione delle altrui intenzioni, gli stimoli che abbiamo usato potrebbero essere modificati (e opportunamente testati) per essere poi usati come test diagnostici. E questi dati potrebbero poi essere usati per creare dei percorsi riabilitativi mirati. Per la diagnosi, i tempi potrebbero essere relativamente brevi (un paio d’anni dall’inizio della ricerca). Per la riabilitazione, i tempi saranno più lunghi, perché si tratta di creare veri e propri training.
Ci sono già risultati preliminari?
Stiamo cominciando a raccogliere i primi dati in questi giorni. Per i risultati, però, bisognerà aspettare
tratto da: panorama.it