martedì 6 novembre 2012

Autismo: parlare per immagini

Edoardo e gli altri quattro bambini seduti in circolo, ciascuno affiancato da un operatore, frequentano a Milano due volte la settimana il Centro Benedetta D’Intino onlus, dove nel 1996 nacquero in Italia il primo servizio clinico e la prima scuola di formazione in comunicazione aumentativa alternativa (Caa). Un insieme di strategie, strumenti e tecniche che costruiscono le capacità comunicative di chi, come nell’autismo, vive in un silenzio forzato. Il 13-14 maggio e il 25-26 giugno il Centro dedica a questo modo di «parlare per immagini» alcuni seminari di aggiornamento sulla Caa: a tenerli verranno da Boston e Vancouver due massimi esperti al mondo, John Costello e Pat Mirenda.
«La tecnica fu da principio usata nei bambini con paralisi cerebrale: si capiva che capivano ma non potevano parlare» racconta Aurelia Rivarola, neuropsichiatra infantile che dirige il servizio clinico e la formazione in Caa al Centro Benedetta D’Intino. Nel 1983 professionisti di 25 paesi fondarono negli Stati Uniti l’International society for augmentative and alternative communication (Isaac). «Il termine “augmentative” chiariva come l’obiettivo fosse incrementare le capacità comunicative esistenti. Va sfatato il pregiudizio, ancora diffuso, che inibisca o ritardi l’eventuale comparsa del linguaggio orale» dice Rivarola. Il linguaggio verbale, se pure compare in metà degli autistici, di rado diventa funzionale ed esprime un pensiero coerente.
L’autismo si manifesta in varie gradazioni (i primi segnali sono evidenti già a 6 mesi, poi ne emergono altri) e lo spettro di alterazioni del comportamento che vanno sotto questo nome è ancora avvolto nel mistero. Il disturbo, che ha quasi certamente basi organiche, porta a chiudersi in un mondo tutto proprio: nella maggior parte dei casi le funzioni di comunicazione, verbale e non, e sociali sono compromesse.
Questi bambini non parlano, se lo fanno il linguaggio è ripetitivo, a pappagallo, spesso privo di senso. Faticano a interagire, a giocare con altri, non condividono stati emotivi, hanno movimenti stereotipati. In alcune forme di autismo c’è ritardo mentale; in altre, «ad alto funzionamento», magari restano i problemi di comunicazione e interazione, non quelli cognitivi. Una minoranza, poi, ha uno sviluppo dell’intelligenza distorto, come capacità di calcolo o memoria straordinarie.
I problemi dei bambini autistici (da 6 a 9 su mille a seconda dei metodi di valutazione, il rapporto maschi/femmine è 4 a 1), se non si fa nulla per favorire la loro integrazione sociale con programmi riabilitativi e rieducativi, aumentano.
«Lasciate sole nella battaglia culturale e sociale per inserire i loro figli nel flusso della vita, le famiglie possono sgretolarsi. La vicenda della madre di Gela che ha annegato i suoi due bambini dovrebbe far riflettere sulle conseguenze della solitudine in cui i genitori vivono questo dramma» avverte Daniela Mariani Cerati dell’Angsa (Associazione nazionale genitori soggetti autistici). Nel 2005 la Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza stilò linee guida per l’autismo (diagnosi e terapia riabilitativa), ma non sono obbligatorie. «Ai genitori che si rivolgono ai servizi sanitari può succedere ancora di incontrare psichiatri legati alle suggestioni psicoanalitiche, come “la mamma frigorifero” tossina psicologica per il suo piccolo, che rifiutano le nuove tecniche riabilitative. Eppure, la terapia comportamentale dà, assieme alla comunicazione aumentativa, risultati. Non bastano iniziative sporadiche, anche se eccellenti: occorre costruire una rete di competenze».
Per avviare un efficace percorso riabilitativo, la diagnosi nei servizi sanitari deve essere il più precoce possibile (prima si iniziano programmi rieducativi meglio è, ma per riconoscere l’autismo spesso si perdono due o tre anni); e la scuola deve impegnarsi a far sì che insegnanti e genitori siano formati per usare la Caa. Quando i bambini vanno a casa il sistema, che si affianca alla parola, deve continuare a essere usato. «Mentre il linguaggio verbale è astratto, l’immagine trattiene il pensiero, lo fissa. E ciò li aiuta. La difficoltà a comunicare può creare frustrazioni che sfociano in comportamenti problematici» spiega Alessandro Chiari, terapista in neuropsicomotricità al Centro Benedetta D’Intino.
La scelta delle immagini che facilitano la comunicazione è adattata a ogni bimbo. «A volte sono semplici, come foto, o più articolate. Per i più dotati la pagina può contenere un elenco di immagini o parole che indicate in successione formano frasi» aggiunge Chiari.
Nel mondo si usano per la Caa dispositivi ad alta tecnologia utilizzabili da un bambino dell’asilo: computer grandi quanto un astuccio di matite, e batterie da 8 ore. Sullo schermo, un touch screen con una griglia di disegni e foto. A ognuno corrisponde un oggetto-azione e un messaggio vocale registrato: il bambino può selezionare con il dito un oggetto-azione e questo produce una richiesta verbale. «Oggi si tende a non rinviare la comunicazione al momento in cui emerge il linguaggio verbale» riferisce Paola Magri, che dirige il Centro di riferimento per l’autismo alla asl Napoli 2 Nord. «Purtroppo il ricorso a questi dispositivi trova ostacoli nella burocrazia: non sono inclusi nel listino ausili del Ssn, aggiornato al 1999. Eppure, migliorano la qualità di vita di un bambino con autismo e consentono ai genitori di “ascoltare” la sua voce» conclude Magri.
tratto da panorama.it 
di Gianna Milano. 
Per informazioni su possibili applicazioni riguardo il Metodo Feuerstein e autismo potete contattarmi via mail a m.boninelli@univirtual.it